lunedì 9 maggio 2016

A un'amica

A volte piove a maggio per ricordarci che anche la primavera ha i suoi momenti tristi in cui niente germoglia e tutto ristagna. Piove sottile e fastidioso, quasi impercettibile per chi corre senza freni in una vita troppo piena. Piove e molti non se accorgono. Eppure ha piovuto tanto in passato, ma per rimembrare piogge lontane bisogna avere un cuore solido nella memoria. 

La forza non è sempre un cumulo di esperienze negative: te lo dicono affinché tu possa sopportare e sollevare un peso più grande di tutto, più grande di te, fino al crollo e anche dopo, strisciando, continuerai a trasportare massi di merda e fango. E ti dicono anche che eroismo significa sorridere, stanca morta e sporca di letame. Io ti vorrei invece veder sorridere in una vasca idromassaggio con i tuoi saponi. 

Ogni giorno ti alzi dal letto e fai passi in avanti, mentre il mondo nei tuoi confronti ne fa cento indietro, e ti chiedi se la Terra, anziché girare, indietreggi stronza nella sua entropia del cazzo. 

Ieri il cielo era rosso. E allora ho pensato: rosso di sera, bel tempo si spera. E stamattina la fottutissima pioggia. Allora ho capito che i detti spesso vanno reinterpretati, perché l'accento non era posto sul bel tempo, ma sulla speranza immortale. Dannatamente immortale. Inutile prendersi in giro: speranza è già illusione. Illusione di una promessa: grazie, le faremo sapere. 

La sensazione di restare immobili. E non immobili al centro, ma immobili ai margini. Fermi lì come cani randagi, abbandonati. Un'immagine sfruttata, un'accozzaglia di cliché. Ma c'è gente che coi cliché ha fatto li sordi. Quindi possiamo anche permetterci di far sentimenti. Noi, che di sentimenti non ci abbiamo mai capito un cazzo: per questo affermiamo di provarli. E tu ancor di più, perché sai ammettere di averne bisogno, di non poterne fare a meno. Viaggi sul nostro stesso treno, ma in prima classe. Solo che questa compagnia ferroviaria ha confuso la prima classe con la terza e quindi, sai, il tuo viaggio fa abbastanza schifo. Ma vedi il paesaggio prima di tutti. Anche quando piove.



giovedì 19 novembre 2015

Una questione di frontiere


Il mondo multiculturale è contraddistinto dall'abbattimento delle frontiere nazionali e dall'allargamento delle basi della propria cultura e del proprio vivere sociale. In questo nuovo mondo forti diventano le tematiche legate alla questione dell'identità, che mettono in discussione la necessità o meno di porre frontiere tra pubblico e privato, tra sé e l'Altro, tra finzione e realtà, specialmente dopo che quest'ultima paia aver perso la propria forza di evidenza e il suo insito significato di «verità». Quello che spesso dimentichiamo è che non vi sono reali confini tra una cultura e l'altra, ma un mélange, così come non vi è una sacralizzazione delle frontiere, ma un loro sprofondare nell'incertezza. E quando si parla di frontiere si fa riferimento alle frontiere psicologiche, geopolitiche, sessuali e razziali, linguistiche e culturali, sociali, spirituali ed esistenziali, ed infine alla frontiera più problematica, ovvero quella che separa l'individuo dalla collettività, che evita la sua dissoluzione all'interno del gruppo sociale. Proprio partendo da questa frontiera che crea il binomio individuo-società, si può giungere a comprendere che abbattere le frontiere è un incipit di caos: esse sono indispensabili per la nostra salvaguardia (ora più che mai) e bisogna difenderle e proteggerle per poter difendere e proteggere il patrimonio culturale e cittadino che abbiamo creato.

L'abbattimento delle frontiere culturali che il mondo occidentale ha sostenuto, ha reso forti coloro che più che ad una interrelazione culturale, ad un rispetto e ad una convivenza pacifica, miravano ad un ingresso forte e decisivo in quelle che, a loro parere, sono culture (e civiltà) da domare o distruggere. Dunque non è questione religiosa, né esclusivamente economica e politica, ma è una guerra culturale che nostro malgrado abbiamo concesso non attraverso l'accoglienza e la solidarietà, principi base di una cultura fondata sulla libertà di pensiero ed espressione, ma attraverso l'autorizzazione a modificare il nostro assetto culturale. La ricchezza che proviene dal mutuo scambio è in realtà illusoria: quel che dovremmo accettare è di essere noi stessi multiculturali, ognuno nella sua dimora e nella sua vita quotidiana, poiché per essere diversi non vi è la necessità di stravolgersi. La libertà concessa ha creato nelle menti malate del processo di "sfrontieralizzazione" il diritto di imposizione, anche violenta, della propria diversità.  


 (Parigi, 13 novembre 2015)

domenica 26 aprile 2015

Un canto dal Mediterraneo


Si dice che le Sirene ammalino e seducano col loro canto, che la loro bellezza sia iperbolica, che abbiano ingannato marinai avventurieri. Si dice anche che simboleggino il vento di Scirocco, quel calore umido del Sud-Est che ti s'incolla addosso, il vento di Mezzogiorno, del Sole, di Zante. È il Mediterraneo che si spinge sino alle Colonne d'Ercole, luogo del limite e del suo superamento. La marea si alza, la marea s'abbassa, e le Sirene sono sempre lì a intonare le antiche melodie degli abissi. Ed il limite è la resistenza o l'abbandono al canto e alle profonde acque salate. E la vita è chieder loro il perché, sapere cosa gli uomini abbiano fatto per meritarsi motivi d'incanto e di morte. Che non è poi così difficile credere che i mortali abbian loro strappato qualcosa - una conchiglia spezzata, un'onda imperfetta, la loro madre. Ed un canto fatale allieta anche la morte, anche l'attesa.

  

De Satan ou de Dieu, qu'importe? Ange ou Sirène,
Qu'importe, si tu rends, — fée aux yeux de velours,
Rythme, parfum, lueur, ô mon unique reine! —
L'univers moins hideux et les instants moins lourds?
(Charles Baudelaire - Hymne à la Beauté)


martedì 7 aprile 2015

Alice e Pinocchio in: nessuna regola!



C'erano una volta una bambina e un quasi bambino: una si rifugiava in un mondo sottosopra, l'altro cercava di capovolgere quello in cui già abitava.
Lewis Carroll e Carlo Collodi hanno perpetrato un tuffo all'indietro, fino alla loro infanzia, per poter rappresentare due bambini ribelli, ma tanto amati. Il ritorno alle rispettive infanzie è un viaggio per i due scrittori molto diverso: una aristocratica e tranquilla Oxford per Carroll, e una giovinezza povera in Toscana per Collodi. Basterebbe confrontare la scena del tè del cappellaio matto e la pentola disegnata sul muro della casa di Geppetto, il sogno contadino di abbondanza, per poter comprendere quanto i due fossero distanti. Eppure, nonostante questa distanza sia evidente negli ambienti e nella caratterizzazione dei personaggi senonché dei due protagonisti, c'è un tema collante, un filo di Arianna con costanza e mestizia seguito da entrambi: la morte dell'infanzia. Se questa morte sia dolorosa o meno, rimane ancora un quesito irrisolto o comunque decisamente ambiguo e discutibile su ogni fronte. 

Quel che emerge è che l'infanzia muore per necessità, ma, sopratutto, perché non esiste un mondo per i bambini. Carroll ne crea uno nuovo, il Paese delle Meraviglie, un luogo incantato e incantevole dove, come dice Alice, "ciò che è non sarebbe e ciò che non è sarebbe". Fantasioso e anarchico, Carroll disegna con le parole questo nuovo mondo, come se si trattasse di un sogno dove ogni elemento è incerto e instabile, dove la realtà è capovolta e il senso logico traballa. Alice non è la sognatrice, ma il sogno: ella incarna la fantasia, incredula persino di se stessa. La perdita d'identità rimarcata dal Brucaliffo non è un reale danno, bensì un'opportunità di fuga dal mondo degli adulti per poter essere finalmente se stessi, per poter essere la Alice bambina e senza doveri.

Il bianconiglio gioca un ruolo ancor più ambiguo, ma spiegabile: è lui che inizialmente attira Alice nel tunnel che la condurrà nel Paese delle Meraviglie, ma è altrettanto lui che la condurrà alla realtà ogni qualvolta ella si distrarrà a parlare coi fiori o a prendere un tè col Cappellaio Matto, sino a condurla dall'unica adulta del regno: la Regina di Cuori. Dunque è la realtà stessa, simboleggiata dal coniglio bianco, che ti chiede di sfuggirle, ma che ti riprende e ti riporta al mondo semplice e regolare. 




Mentre Carroll scappa dalla realtà, Collodi immerge il suo protagonista nel mondo reale, seppure con qualche remora fantasiosa che la penna gli suggeriva, come la gita nella pancia della balena. In effetti la ricerca della realtà qui coincide con la ricerca della verità: per essere reale, un bambino vero, Pinocchio non può dire bugie, ma deve abbracciare la verità come stile di vita. Tuttavia per i bambini, come sottolinea Collodi più e più volte, la verità è troppo ordinaria: per questo il suo burattino viene ammaliato da uno spettacolo di marionette, da una messa in scena e, di conseguenza, da un teatrino intriso di falsità. Le tentazioni che si trovan sulla via, sono per Pinocchio delle opportunità di fuga, così come per Alice lo era il Paese delle Meraviglie. Il famoso duo del Gatto e della Volpe, oltre a simboleggiare in maniera evidente e consueta i mali della società e il motto "fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio", sono per il bambino-burattino i migliori amici che si potessero volere, poiché incoraggiano alla ribellione e alla sindrome di Peter Pan. 

Il finale di Collodi è più esplicito rispetto a quello di Carroll, poiché Pinocchio esce dall'infanzia e abbraccia il padre Geppetto con le braccia di un bambino vero: è un adulto. In Alice la trasformazione è meno netta e, in realtà, si potrebbe ipotizzare che non sia mai avvenuta: noi non sappiamo, non ci è dato sapere, se Alice abbia lasciato Wonderland per sempre oppure no.

venerdì 3 aprile 2015

Pandora e Ulisse: il maledetto dono della curiosità


Tutti conosciamo il mito di Pandora e del vaso che Zeus le regalò con l'ordine di non aprirlo, così come conosciamo le avventure di Ulisse terra marique con i suoi compagni. Sappiamo anche che entrambi peccarono di quella che i greci chiamavano ὕβϱις (ubris), ovvero di superbia contro il Fato: Pandora aprì il suo vaso e Ulisse oltrepassò le colonne d'Ercole, luogo proibito agli uomini. 

Ognuno di noi, ogni giorno, pecca di ὕβϱις o, meglio, di quella che comunemente vien chiamata curiosità. Nonostante i molti elogi in suo favore, la curiosità non si limita ad essere sintomo di intelligenza e di ambizione, ma di desiderio e istinto: due elementi a dir poco ambigui, sia all'epoca dei grandi miti e dei portentosi eroi, che ai nostri giorni. La curiosità è il desiderio di sapere qualcosa, di vedere con gli occhi, di toccare con mano. La grande letteratura, a partire dalla Bibbia e dai Vangeli, ne parla come di un qualcosa di deleterio per l'uomo: Eva vuol sapere se il frutto proibito abbia realmente la capacità di renderla simile a un dio, perciò lo assaggia; San Tommaso vuol toccare con mano il costato del Cristo risorto altrimenti non crede alla sua resurrezione; Icaro volle volare così in alto che le sue ali di cera si sciolsero al sole; Faust era così smanioso di avere tutta la conoscenza del mondo, che vende la sua anima al diavolo.



Il concetto del "se non vedo, non credo" si articola nei nostri animi più frequentemente di quel che siamo abituati a pensare. Corriamo a cercare di continuo risposte o conferme, che si tratti di una ricerca sul dizionario o su Google, o che si tratti di una reale difficoltà a credere alle parole altrui: sfidiamo la sorte mettendo a dura prova chi ci sta intorno, oltre che noi stessi, poiché non ci basta credere ed aver fede, vogliamo quel di più. E quella certezza per cui smaniamo tanto, si risolve in un'apocalisse. Aperto il vaso, Pandora scoprì che da esso fuoriuscirono tutti i mali del mondo: la fatica, la malattia, l'odio, la vecchiaia, la pazzia, l'invidia, la passione, la violenza, la guerra e la morte; mangiando la mela, Eva scoprì che l'unico effetto sortito fu la cacciata dal Paradiso e la condanna ad una vita che conosce la sofferenza; passate le colonne d'Ercole, Ulisse e i suoi compagni vengono travolti da un turbine divino. 


Ma questo non ci scoraggi alla scoperta quotidiana, seppure misurata in virtù della pace e della serenità e sopratutto della salvaguardia di se stessi, perché:
Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.
 (Dante, Inferno XXVII, vv.118-120)

domenica 29 marzo 2015

Medea con gli occhi di Pasolini: l'eterna lotta tra onirico e logico, tra selvaggio e civile


A Corinto, Esone è stato spodestato dal fratello Pelia, che ha allontanato Giasone affidandolo al protettore Chirone. Divenuto uomo, Giasone rivendica il trono. Pelia, in cambio, lo invita ad un'ardua impresa nel'Ecate, terra barbara: rubare il vello d'oro. Intanto Pasolini offre una visione della cultura barbara attraverso la rappresentazione del sacrificio di un ragazzo per un cruento rito di fertilità. Il vello d'oro sarà rubato da Medea, figlia di Eeta, re dell'Ecate, la quale chiederà aiuto al fratello, per poi ucciderlo poco prima della fuga con Giasone, seminando i pezzi del corpo sulla strada, per rallentare la corsa dell'esercito del padre che li cercava per riprendere il vello d'oro. Giunti in Grecia, Pelia non mantiene la promessa. Intanto Medea e Giasone consumano il loro amore, dal quale nasceranno tre figli. Istruita alla cultura greca, Medea sembra aver dimenticato le sue origini, che riaffioreranno nel momento in cui, giunta abusivamente nel giardino del palazzo di Creonte, verrà a conoscenza delle nuove nozze che Giasone contrarrà con Glauce, figlia dello stesso Creonte. Nel dialogo con la nutrice e con le altre donne al suo servizio, Medea riscopre l'attaccamento alla sua terra, il suo dio e le sue arti magiche, che utilizzerà per compiere la sua vendetta, coronandola con l'uccisione dei figli e l'incendio della dimora coniugale e della stessa città di Corinto.

Dalla visione del film emerge un conflitto senza tempo: quello tra il sogno e la ragione. Il primo personificato da Medea e dal mondo barbaro, il secondo da Giasone e dalla cultura greca: l'universo arcaico della maga dominato dalle emozioni e la modernità dell'eroe pragmatico. La regia sembra prediligere il mondo onirico della principessa dell'Ecate, basando il flusso di immagini sulle sue "visioni", operando una trasposizione di sogni e non di fatti. La narrazione procede, così, impastando crudeltà e innocenza, barbarie e senso del sublime, attraverso l'elemento chiave del silenzio. Silenzio e sogno dominano la protagonista e il suo popolo, raddoppiando le scene e ponendole fuori dal tempo e dalla realtà. La sua sfera percettiva si impregna di arcaico, di ieratico, di clericale.



Pasolini propone il contrasto tra il mondo antico e la modernità, creando un parallelismo fra il Terzo Mondo e l'Occidente. In un'intervista di Dufot, Pasolini stesso afferma:
Potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell'irreligiosità, nell'assenza di ogni metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un'illusione. Nulla si perde.
Si nota un'estrema attenzione del regista per l'antefatto, rimandando l'incontro con il testo poetico, che presenterà solo qualche citazione della tragedia di Euripide. Infatti, tra Medea e Giasone, protagonisti indiscussi, non c'è mai dialogo, tranne che alla fine, quando le parole ormai non servono più a nulla. Musiche sacre giapponesi e canti d'amore iraniani sono le uniche voci, che riescono a creare l'atemporalità del mito.  La mancanza di dialogo sfocia nella mancanza di affetti e sentimenti: la rabbia del tradimento, l'istinto di maternità, l'amore coniugale, la passione sessuale. Tutti questi elementi sono assenti o, meglio, dominati da un'aurea di freddezza e vacuità. Lo stesso rapporto sessuale fra i due vede gli occhi di Medea spalancati sul vuoto e gli ansimi di Giasone insensibili e compiaciuti. L'amore in Medea è conflitto irresolubile tra ciò che sente e ciò che è ammesso sentire, tra ciò che si è e ciò che si diventa abbandonando la propria identità per qualcun'altro. Con l'uccisione dei figli e con l'incendio, ella uccide ogni possibilità di sopravvivenza del suo mondo, quel mondo arcaico che aveva già profanato sottraendogli il vello.

Il film rappresenta per Pasolini l'atto estremo di perdita di fiducia nel logos (rappresentata in maniera funzionale dall'utilizzo della musica etnica al posto della tradizionale musica occidentale), basandosi sul confronto di due opposti sistemi di pensiero: quello mitico-realistico di Medea e quello laico-manieristico di Giasone. L'opposizione è insanabile e non ammette alcuna possibilità di sintesi dialettica. Sfatando il metodo hegeliano, Pasolini si fa portavoce di una dialettica binaria, che trova la sua massima espressione figurativa nel centauro. L'incontro-scontro tra Giasone e Medea dà vita a due altre opposizioni tangibili: verbale/non verbale (il silenzio della barbarie e l'agone della civiltà) e lineare/circolare (dopo la fuga con gli argonauti, Medea critica la loro noncuranza nell'aver piantato le tende senza segnare il centro).

L'opera di Pasolini vuol porsi come metafora della crisi della modernità. Sempre nell'intervista di Dufot, Pasolini spiega:

L'uomo moderno vive una radicale scissione tra il suo ineliminabile sostrato filogenetico, quello simbolico, irrazionale e religioso del mondo mitico, e l'esigenza indotta di un prevaricare della ragione su questi valori. Nel momento in cui l'iniziazione culturale fa entrare in conflitto le due istanze, si apre lo spazio di una profonda lacerazione esistenziale che consegna l'individuo ad un'oscillazione radicale tra questi due poli.

domenica 22 marzo 2015

Favolofantasticando


Biancaneve e Rosaspina:
il sonno della ragione genera...fiabe.

C'erano una volta due bellissime principesse, ma poi una di loro mangiò una mela avvelenata e l'altra si punse al fuso di un arcolaio stregato, e caddero a terra in un sonno profondo. Solo il bacio del vero amore le avrebbe potute risvegliare e salvare da quella morte apparente. 

Sonno e morte: labile confine dal quale emerge nelle due celebri fiabe la filosofia epicurea dove la morte non riguarda né chi è vivo né chi è morto, poiché colui che è vivo non può esserne coinvolto, mentre colui che è morto non ne può avere percezione, così come capita che non abbia nessuna percezione chi è sprofondato nel sonno. Sonno, dunque, come annullamento dei sensi e di ogni reale percezione, razionale e sentimentale. Il bacio del vero amore desta dal sonno, proprio perché l'amore è essere svegli, è essere vivi, mentre la latenza del sonno è oblio e dimenticanza: glaciale il corpo così come il cuore. 

Secondo l'interpretazione antropologica, nelle fiabe ricorrerebbero motivi derivanti dai riti di iniziazione cui venivano sottoposti gli adolescenti delle tribù al sopraggiungere della pubertà, per segnare il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Costante era nello svolgersi di questi riti la simbolizzazione della morte dell'iniziato che poi, altrettanto simbolicamente, resuscitava in una nuova forma, l'età adulta, per l'appunto. Un ritorno dalla morte che non ha mai, nelle fiabe, i connotati del mostruoso o del macabro: le nostre principesse riaprono gli occhi più belle che mai e sorridenti.

Presente e ben radicata nella cultura occidentale è infatti l’importanza della possibile relazione tra sonno e bellezza: ne La Bella Addormentata nel Bosco, in maniera molto più evidente che in Biancaneve, è rappresentato il mito del risveglio. La principessa Rosaspina non solo cade in un sonno lunghissimo, ma trascina con sé nell'incantesimo anche tutto il suo castello, che si chiude in un'impenetrabile selva di spine e rovi intrecciati, da cui deriva il suo nome. Dunque Rosaspina simboleggia la terra addormentata nell'abbraccio dell'inverno, così come il suo salvatore, che penetrerà nel castello spezzando tutti i rami secchi che avvolgono le mura con la sua spada, per risvegliarla infine con un bacio e salvare l’intero castello, rappresenta invece l’arrivo della primavera che restituisce vita e colore alla terra. La fiaba in realtà ripercorre le tracce degli antichi riti collegati all'equinozio primaverile, dove la primavera è, come oggi, considerata la stagione degli amori e del risveglio della natura e della vita. 


Quel che nella psiche si addormenta è ottenebrato e freddo, senza vita, chiuso nel sonno della mancanza, nell’inerzia di senso e di amore. Qualcosa nelle due principesse aspetta di essere riconosciuto e risvegliato da un atto amoroso di comprensione, lanciando un potente segnale di speranza. La liberazione di ciò che dorme, inconscio o bloccato, può richiedere molto lavoro: solo dopo cent’anni il Principe Azzurro riesce a baciare la sua Principessa.

Biancaneve e Aurora, troppo ingenuamente cadono in un sonno della ragione. I Principi che col bacio le salvano simboleggiano dunque la realtà concreta, la razionalità che esplode e vince sull'inconscio momento del sonno. Questa lotta tra ragione e irrazionalità è portata avanti anche dal fatto che le due streghe muoiono cadendo in un precipizio, esplicita metafora dell'irrazionale che cade nell'abisso in maniera irreparabile.