A Corinto, Esone è stato spodestato dal fratello Pelia, che
ha allontanato Giasone affidandolo al protettore Chirone. Divenuto uomo,
Giasone rivendica il trono. Pelia, in cambio, lo invita ad un'ardua impresa
nel'Ecate, terra barbara: rubare il vello d'oro. Intanto Pasolini offre una
visione della cultura barbara attraverso la rappresentazione del sacrificio di
un ragazzo per un cruento rito di fertilità. Il vello d'oro sarà rubato da
Medea, figlia di Eeta, re dell'Ecate, la quale chiederà aiuto al fratello, per
poi ucciderlo poco prima della fuga con Giasone, seminando i pezzi del corpo
sulla strada, per rallentare la corsa dell'esercito del padre che li cercava
per riprendere il vello d'oro. Giunti in Grecia, Pelia non mantiene la
promessa. Intanto Medea e Giasone consumano il loro amore, dal quale nasceranno
tre figli. Istruita alla cultura greca, Medea sembra aver dimenticato le sue
origini, che riaffioreranno nel momento in cui, giunta abusivamente nel
giardino del palazzo di Creonte, verrà a conoscenza delle nuove nozze che
Giasone contrarrà con Glauce, figlia dello stesso Creonte. Nel dialogo con la
nutrice e con le altre donne al suo servizio, Medea riscopre l'attaccamento
alla sua terra, il suo dio e le sue arti magiche, che utilizzerà per compiere
la sua vendetta, coronandola con l'uccisione dei figli e l'incendio della
dimora coniugale e della stessa città di Corinto.
Dalla visione del film emerge un conflitto senza tempo:
quello tra il sogno e la ragione. Il primo personificato da Medea e dal mondo
barbaro, il secondo da Giasone e dalla cultura greca: l'universo arcaico della
maga dominato dalle emozioni e la modernità dell'eroe pragmatico. La regia
sembra prediligere il mondo onirico della principessa dell'Ecate, basando il
flusso di immagini sulle sue "visioni", operando una trasposizione di
sogni e non di fatti. La narrazione procede, così, impastando crudeltà e
innocenza, barbarie e senso del sublime, attraverso l'elemento chiave del
silenzio. Silenzio e sogno dominano la protagonista e il suo popolo,
raddoppiando le scene e ponendole fuori dal tempo e dalla realtà. La sua sfera
percettiva si impregna di arcaico, di ieratico, di clericale.
Pasolini propone il contrasto tra il mondo antico
e la modernità, creando un parallelismo fra il Terzo Mondo e l'Occidente. In
un'intervista di Dufot, Pasolini stesso afferma:
Potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del
Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio, che vivesse la stessa
catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del
resto, nell'irreligiosità, nell'assenza di ogni metafisica, Giasone vedeva nel
centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il
tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un
uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per
questo si aboliscono. Il superamento è un'illusione. Nulla si perde.
Si nota un'estrema attenzione del regista per l'antefatto,
rimandando l'incontro con il testo poetico, che presenterà solo qualche
citazione della tragedia di Euripide. Infatti, tra Medea e Giasone,
protagonisti indiscussi, non c'è mai dialogo, tranne che alla fine, quando le
parole ormai non servono più a nulla. Musiche sacre giapponesi e canti d'amore
iraniani sono le uniche voci, che riescono a creare l'atemporalità del mito. La mancanza di dialogo sfocia nella mancanza
di affetti e sentimenti: la rabbia del tradimento, l'istinto di maternità,
l'amore coniugale, la passione sessuale. Tutti questi elementi sono assenti o,
meglio, dominati da un'aurea di freddezza e vacuità. Lo stesso rapporto
sessuale fra i due vede gli occhi di Medea spalancati sul vuoto e gli ansimi di
Giasone insensibili e compiaciuti. L'amore in Medea è conflitto irresolubile
tra ciò che sente e ciò che è ammesso sentire, tra ciò che si è e ciò che si
diventa abbandonando la propria identità per qualcun'altro. Con l'uccisione dei
figli e con l'incendio, ella uccide ogni possibilità di sopravvivenza del suo
mondo, quel mondo arcaico che aveva già profanato sottraendogli il vello.
Il film rappresenta per Pasolini l'atto estremo di perdita
di fiducia nel logos (rappresentata in maniera funzionale dall'utilizzo della
musica etnica al posto della tradizionale musica occidentale), basandosi sul
confronto di due opposti sistemi di pensiero: quello mitico-realistico di Medea
e quello laico-manieristico di Giasone. L'opposizione è insanabile e non
ammette alcuna possibilità di sintesi dialettica. Sfatando il metodo hegeliano,
Pasolini si fa portavoce di una dialettica binaria, che trova la sua massima
espressione figurativa nel centauro. L'incontro-scontro tra Giasone e Medea dà
vita a due altre opposizioni tangibili: verbale/non verbale (il silenzio della
barbarie e l'agone della civiltà) e lineare/circolare (dopo la fuga con gli
argonauti, Medea critica la loro noncuranza nell'aver piantato le tende senza
segnare il centro).
L'opera di Pasolini vuol porsi come metafora della crisi
della modernità. Sempre nell'intervista di Dufot, Pasolini spiega:
L'uomo moderno vive una radicale scissione tra il
suo ineliminabile sostrato filogenetico, quello simbolico, irrazionale e
religioso del mondo mitico, e l'esigenza indotta di un prevaricare della
ragione su questi valori. Nel momento in cui l'iniziazione culturale fa entrare
in conflitto le due istanze, si apre lo spazio di una profonda lacerazione
esistenziale che consegna l'individuo ad un'oscillazione radicale tra questi
due poli.